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I ragazzi che si nascondono: il fenomeno hikikomori - Seconda parte

La salute mentale nella società di oggi

Breve sintesi della precedente pubblicazione. 

L’hikikomori è una pulsione all’isolamento sociale che può essere più o meno intensa e meglio o peggio costatata dal soggetto che la esperisce in base a fattori personali e ambientali (temperamento, ambiente famigliare, ambiente scolastico, ambiente sociale, ecc.). Nel nostro Paese, secondo hikikomori Italia, alcune stime (non ufficiali) riportano almeno 100.000 casi. “La maggior parte dei ragazzi hanno tra i 15 e i 25 anni, ma non mancano casi più giovani o più adulti. Provengono da famiglie benestanti e spessissimo sono figli unici in quanto subiscono le maggiori aspettative genitoriali. In moltissimi casi sono figli di genitori separati. Sono ragazzi molto intelligenti, che non hanno alcun problema a livello scolastico e che hanno poco in comune con i compagni di classe”. 

L’isolamento totale e prolungato non è che l’ultima fase di un processo graduale, ovvero quando il soggetto che percepisce la pulsione a isolarsi, decide, per una serie di concause, di abbandonarsi a essa e smettere di provare a contrastarla. Per molti miei colleghi l’isolamento di un hikikomori è semplicemente conseguenza di uno stato depressivo. Io non concordo, perché se così fosse, non avrebbe senso utilizzare un nuovo termine che indica più una pulsione all’isolamento sociale e quindi ha origine da una  valutazione personale della realtà e dell’ambiente circostante: come detto su, è un individuo particolarmente introspettivo e dotato di spiccata sensibilità nei confronti della vita che lo trasporta verso il rifiuto cosciente di far parte della società, della nostra realtà esistenziale, e quindi ne consegue la messa in discussione dei significati caratterizzanti la vita seguiti da svuotamento e annullamento dell’individuo. Quindi diversa cosa sono gli eventi o conflitti psichici tipici della depressione nevrotica o psicogena. La mia personale convinzione è che le persone più brillanti sono in grado di concepire come le cose potrebbero essere, tendendo a essere idealiste. Tuttavia, al contempo, si rendono conto di come la realtà non rispecchi i propri ideali e sfortunatamente, riconoscono anche la propria incapacità di provocare cambiamenti sul mondo e provano frustrazione per questo. Notano disonestà, finzione, assurdità e ipocrisia nella società e nei comportamenti delle persone che li circondano. Così decidono di sfidare e mettere in discussione le tradizioni e consuetudini, soprattutto quelle che sembrano loro inutili o ingiuste. A tal proposito, anche se molto sintetizzata rispetto al mirabile lavoro, voglio proporre come spunto di riflessione il lavoro di K. Dabrowski (psicologo e psichiatra polacco) autore di un’elaborata teoria di crescita personale, che partiva dall’assunto che alla base dello sviluppo e della crescita personale vi fosse un processo chiamato “disintegrazione positiva”, che porta l’individuo a mettere in discussione i propri istinti e le convenzioni sociali. Secondo Dabrowski questo processo è sempre preceduto da una fase di depressione esistenziale, che egli aveva notato essere più comune in persone particolarmente sensibili ed emozionali. Tale fase di “disintegrazione” è lo step necessario affinché l’individuo si rigeneri a un maggiore livello di accettazione e consapevolezza, determinando, appunto, una crescita personale. Tuttavia da sue osservazioni scopre che questo passaggio non sempre avviene e che invece risulta decisivo quello che lui definisce il “terzo fattore”, ovvero una forza intrinseca, che spinge le persone a trovare la determinazione per controllare comportamenti e istinti, riuscendo a vivere pienamente in armonia con i propri valori personali. È possibile, dunque, che alcune persone falliscano in questa fase di ricostruzione e rimangano invischiate in un limbo, non essendo state in grado di rigenerarsi a un nuovo livello. In effetti, la su citata tesi è avvalorata dal fatto che ci troviamo in un periodo storico nel quale la depressione esistenziale è favorita da numerosi fattori, come, ad esempio, dal crollo dei dogmi religiosi, oppure da una concorrenza sociale e da una corsa al successo personale sempre più sfrenata e ingiustificata. Il secolo scorso è passato alla storia come secolo della galoppante secolarizzazione, dell’irrefrenabile materialismo ed esasperazione dell’individualismo. In altre parole, non possiamo esimerci dal valutare il contesto socio-culturale di oggi come novello “Caronte” e quindi traghettatore di anime, nel nostro caso i giovani più sensibili e riflessivi, a interrogarsi a fondo sul significato dell’esistenza, arrivando contestualmente a mettere in discussione anche il modello di vita contemporaneo. Alcuni di loro potrebbero sperimentare una perdita di senso, non trovando motivazioni nel perseguire gli obiettivi “materiali” tipici della società moderna, sfociando così in un tunnel di confusione, apatia e demotivazione, che a sua volta li condurrà, in alcuni casi, alla scelta dell’isolamento. Quindi, e ricollegandomi ai lavori pubblicati in precedenza, non più giovani stigmatizzati da generazioni gerontocratizzate ed etichettabili semplicisticamente come inetti, choosy e non volenterosi di crescere, ma giovani sul ciglio di un pendio aperto sul baratro di un limbo del tutto personale, bisognosi di aiuto, e in specifico di un’ancora e di un timoniere. Sulla base di mie osservazioni, ipotizzo di suddividere il fenomeno hikikomori nel ventaglio che va dai primi campanelli d’allarme all’isolamento totale, in tre  stadi :

1 - Il ragazzo o la ragazza comincia a percepire la pulsione all’isolamento sociale, senza però riuscire a elaborarla consciamente. Si accorge di provare malessere quando si relaziona con persone, trovando maggiore sollievo nella solitudine. In questa fase, il soggetto prova a contrastare la pulsione, continua a mantenere delle attività sociali che richiedono contatto diretto col mondo esterno, nonostante il malessere provocatogli da quest’ultime lo portino a preferire relazioni virtuali. I comportamenti che caratterizzano questo stadio sono: il rifiuto saltuario di andare a scuola utilizzando scuse di qualsiasi genere; il progressivo abbandono di tutte le attività “parallele” che richiedono un contatto diretto con il mondo esterno (per esempio, le attività sportive); una graduale inversione del ritmo sonno-veglia e la preferenza per attività solitarie (soprattutto legate alle nuove tecnologie, come, per esempio, i video games o il consumo sregolato di film e serie TV).

2 - Il ragazzo o la ragazza comincia a elaborare consciamente la pulsione all’isolamento e ad attribuirla razionalmente ad alcune relazioni o situazioni sociali. È in questa fase che si cominciano a rifiutare puntualmente le proposte di uscita degli amici, si abbandona progressivamente la scuola, si inverte totalmente il ritmo sonno-veglia e si trascorre la quasi totalità del proprio tempo chiusi nella camera da letto dedicandosi ad attività solitarie. I contatti sociali con il mondo esterno si limitano ora quasi esclusivamente a quelli virtuali, coltivati attraverso il web soprattutto utilizzando chat, forum e giochi online. Viene mantenuto anche un rapporto (spesso conflittuale) con i genitori e gli altri membri della famiglia.

3 - Il ragazzo o la ragazza decide di abbandonarsi completamente alla pulsione di isolamento sociale e si allontana progressivamente anche dai genitori e dalle relazioni sviluppate in rete. Quest’ultime diventano per il soggetto fonte di grande malessere, in un modo simile alle relazioni sociali canoniche. Il ragazzo o la ragazza sprofonda in un isolamento pressoché totale, esponendosi a un grande rischio di sviluppare psicopatologie (soprattutto di natura depressiva e paranoide).

Ci tengo a sottolineare, per il lettore più accorto, come queste fasi non siano da intendersi rigide, ma dinamiche e in un continuum che può comportare anche alternanza periodica tra diversi stadi, lunghi periodi di stabilizzazione, repentine regressioni, ricadute o miglioramenti fittizi, in altalene decennali. È possibile, inoltre, individuare delle sottofasi intermedie, su cui non mi dilungherò.

Una volta che l’hikikomori ha raggiunto il terzo stadio, riuscire a riportarlo alla vita sociale è molto complesso e spesso richiede un intervento lungo, intenso e articolato, che potrebbe durare potenzialmente anche anni. Per questo motivo è fondamentale intervenire già nel primo stadio, quando si manifestano i primi campanelli d’allarme. In questa fase i genitori devono cercare di aumentare i momenti di comunicazione con il figlio, provando a indagare a fondo quali siano le motivazioni intime che provocano i comportamenti di isolamento. Nel momento in cui si ha la percezione che tali comportamenti siano in fase di peggioramento e si avvicinino a quelli descritti nel secondo stadio, è importante che i familiari cerchino immediatamente il supporto di un professionista esterno, senza aspettare che l’isolamento si concretizzi.

In fondo l’hikikomori è un meccanismo di difesa messo in atto come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale tipiche delle società capitalistiche economicamente più sviluppate. Spiega all’Agi Crepaldi: “L’hikikomori è il frutto si una società che esercita sui ragazzi una serie di pressioni che vanno dai buoni voti scolastici, alla realizzazione personale, alla bellezza fino alla moda”.  Ragazzi e ragazze si trovano così a dover colmare virtualmente il gap che si viene a creare tra la realtà e le aspettative di genitori, insegnanti e coetanei. Quando questo gap diventa troppo grande si sperimentano sentimenti di impotenza, perdita di controllo e di fallimento. A loro volta questi sentimenti negativi possono portare ad un atteggiamento di rifiuto verso quelle che sono le fonti di tali aspettative sociali. E siccome queste fonti sono rappresentate, come detto, dai genitori, dagli insegnanti, dai coetanei e, più in generale dalla società, il ragazzo tenderà spontaneamente ad allontanarsene e a rifugiarsi nella propria camera dove è immune al sentimento della vergogna. Tutto questo porta a una crescente difficoltà e demotivazione del ragazzo nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa. Il disagio cresce col crescere dell’età: mentre gli hikikomori restano chiusi in camera, i compagni si diplomano, si laureano, trovano lavoro. E il confronto con gli amici per questi ragazzi diventa sempre più insopportabile. Vero problema è che troppo spesso l’hikikomori viene scambiato con patologie con cui non ha nulla a che fare, generando una grande confusione intorno al fenomeno. Ecco cosa non è l’hikikomori: 

1 - non è dipendenza da internet, infatti il fenomeno è scoppiato in Giappone ben prima della diffusione del personal computer. Questo significa che prima che esistesse internet l’isolamento degli hikikomori era totale. Da questo punto di vista l’utilizzo del web può addirittura essere interpretato come un fattore positivo in quanto consente ai ragazzi di continuare a coltivare delle relazioni sociali che altrimenti non avrebbero.

2 - Non è depressione. Per molti l’isolamento degli hikikomori sarebbe solamente la conseguenza di uno stato depressivo: è falsa credenza, nonché banale semplificazione. Anzitutto, come stabilito anche dal Ministero della Salute Giapponese nel 2013, l’hikikomori non è una malattia (al contrario della depressione). È stata infatti dimostrata l’esistenza di un “hikikomori primario”, ossia un hikikomori che si sviluppa prima e a prescindere da altre patologie; uno stato di ritiro che non deriva da nessun disturbo mentale preesistente.

3 - Non è una fobia sociale. Così come l’isolamento dell’hikikomori non è causato dalla depressione, esso non nemmeno riconducibile semplicemente a un disturbo d’ansia, come, ad esempio, la fobia sociale o l’agorafobia (ovvero la paura degli spazi aperti, dei luoghi pubblici). “È innegabile che dopo un lungo periodo di isolamento una persona possa sviluppare una dipendenza dal computer, possa sperimentare un calo dell’umore o avere paura di uscire di casa, ma questo può portarci ad affermare che dipendenza da internet, depressione e fobie sociali siano la causa dell’hikikomori?  La risposta è “no””.

Adesso, immaginiamo per un momento di prendere l’hikikomori e di trasportarlo in un altro posto, che non ha più le caratteristiche dell’ambiente-stanza, ma avrà delle peculiarità diverse.  Il soggetto, così come qualunque altra persona privata improvvisamente della propria zona di confort, vivrà con sofferenza questo cambiamento... 

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