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Sicuro di non essere morto?

La realtà ispira il genio di Wright

Già ti vedo al trillo della sveglia scendere dal letto come un giocattolo a molla, i piedi nudi che tamburellano sul tappeto come se avessero vita propria, impazienti nell’attesa che ti decida ad alzarti, gli occhi cisposi, miopi, intenti a frugare nella mente alla ricerca di un motivo per iniziare un’altra giornata. Perché è così, non mentirti. E se lo fai, ripetendoti che la vita è bella, trova anche un momento, poi, per sussurrarti che sei un ipocrita. Ma va bene. O almeno potrebbe andar bene se ti serve per andare avanti. Tuttavia se cerchi una botta di vita, questa non è la lettura che fa per te. Sei stato avvisato.

Nel 2004, ben 12 anni fa, il giovane Edgar Wright si guadagnava stima e consensi nel mondo degli zombie movies girando il primo della cosiddetta “Trilogia del cornetto”: il film “L’alba de morti dementi”  definito da personalità del calibro di Tarantino e King come il migliore di sempre, destinato a diventare un cult. E di fatti, si può dire che a modo suo così è stato. Persino la pietra miliare del mondo cinematografico horror, George Romero, lo ha apprezzato al punto da voler celebrare il regista con un cameo nel suo “La terra dei morti viventi” e ancora Peter Jackson, padre de “Il Signore degli anelli”, ha insistito per partecipare, con una sua personale comparsa, al secondo lungometraggio della trilogia wrightiana.

Ennesima vittima delle pessime traduzioni italiane, il titolo originale “Shaun of the Dead” gli restituisce sicuramente giustizia e senso: gioca, infatti, sulla fonetica della parola “dawn” (“alba”, laddove appunto il titolo dovrebbe essere “Dawn of the dead”) richiamando il nome del protagonista, Shaun, eroe inconsapevole della realtà filmica e non solo. Inevitabilmente, carichi del pregiudizio innestato dalla meschina intestazione, in prima battuta non si può che cedere nel ritenere la pellicola elogio alla demenzialità. Fin dalle primissime scene il regista intavola e sovrappone, con stile frenetico, assurdità e paradossi, situazioni oltre il limite della credibilità, equivoci, continui rimandi e citazioni, conversazioni prive di senso, comportamenti anormali, sciocchi, reazioni inaspettate e inconcepibili. Eppure se si osa scostare il velo di Maya ci si rende conto che la ratio basilare del film ha del realistico in maniera non solo magistrale ma anche spaventosa.  In breve, Shaun (Simon Pegg) vive oramai la sua vita con fare mediocre: ogni mattina, come un automa, batte lo stesso percorso sul quale incontra sempre le solite persone; non tollera il suo lavoro quasi quanto non sopporta il suo patrigno, ha problemi con la sua autostima nonché con il suo coinquilino, con il suo migliore amico e con la sua fidanzata fino ad una definitiva rottura. Una mattina, in pieno hangover, Shaun attua il solito rito ‘supermercato-colazione con cornetto gelato-casa’ senza rendersi conto che qualcosa è cambiato: saluta, chiacchiera, fa acquisti come fosse un giorno qualunque, ma nel pieno di un’invasione di zombie.

Compaiono, qui, le prime avvisaglie della sottile genialità registica che percorre poi l’intera pellicola. Pur pescando dal paiolo dei clichè horror-zombie, Wright va al di là della banale parodia e tramite un approccio più british si spinge a disegnare un’efficace allegoria: i non-morti non sono altro che le medesime persone della noiosa quotidianità di Shaun, a loro volta vittime di esistenze estinte, prive di interesse e nuova energia. Lo stesso protagonista, pur avendo camminato in mezzo a loro, non si renderà conto dell’epidemia di zombie finché non accenderà il televisore sintonizzato per caso su un notiziario. D’altronde se si è già morti interiormente, come ci si può accorgere di qualsiasi cambiamento? La visione pseudo-apocalittica del film rappresenta senza dubbio l’estremizzazione di un malessere che ad inizio nuovo millennio sembrava forse solo affacciarsi, ma che oggi fa da padrone nella realtà di chiunque. Siamo schiacciati da una società che fin dalla culla ci tartassa di aspettative di adeguamento a modelli dominanti di tipo lavorativo, estetico, umano: fin da giovani dobbiamo sacrificare buona parte del nostro tempo per assicuraci un futuro economico-lavorativo stabile ma che finisce per renderci instabili, fragili dal punto di vista psico-emotivo. Il nostro quotidiano viene impiegato davanti a schermi, chiusi tra quattro solide pareti, strattonati da uno, due, più dispositivi mobili con app che rappresentano l’unico motivo di distrazione, con i social che trillano ad ogni notifica, con le chiamate e i messaggi che ci connettono in ogni luogo anche se emotivamente non siamo connessi. Dobbiamo essere piacenti, curati, tonici, sicuri di una giovinezza che eterna non è. Non possiamo permetterci di perdere mai un colpo, sempre aggiornati, senza più dubbi se non quelli immediatamente rimpiazzati da fugaci letture wikipediane. Doniamo il 5x1000, fondiamo associazioni umanitarie  politiche ambientaliste che richiedono più fondi per organizzare la gerarchia interna di quelli necessari per portare a termine la missione, ma lo facciamo perché è il genere di umanità che ci viene insegnata, inculcata, mentre a scuola i ragazzini si comportano da bulli con i compagni di banco, a lavoro si è vittime di mobbing, alle riunioni condominiali si sta in piedi per scongiurare il pericolo di sedie volanti. Banalizziamo il male, lo riduciamo a consuetudine e lo dimentichiamo in breve tempo perché siamo abituati ad aspettarcene altro e altro ancora. La diversità non viene concepita come potenziale arricchimento, ma come difetto, mancanza delle stesse abitudini, degli stessi privilegi, degli stessi ritmi e questo continua a renderci intolleranti, razzisti in ogni ambito. Stiamo a poco a poco dimenticando il rapporto di dipendenza che ci lega alla natura, distruggendo una fonte di risorse non solo per la sopravvivenza, ma anche di vita vera, di meraviglia, di benessere interiore e mai di banalità.

Ogni giorno moriamo un po’, alcuni di noi sono già morti, altri persino in decomposizione. Ma non lo sappiamo. Se domani uno zombie ci spiasse dalla finestra, come nel racconto di Wells, si dorrebbe di non avvertire più profumi, odori, sensazioni, ma allo stesso tempo si chiederebbe perché mai i morti devono essere quelli della sua specie e non gli esseri umani i quali respirano sì, “vivono”, ma annullando il vero sentire.

”L’alba dei morti dementi” si conclude con una nota speranzosa: la ribellione di Shaun alla catastrofe e al proprio decadimento esistenziale. Così il protagonista diventa, in modo goffo, eroe e salvatore di se stesso e dei suoi cari, riacquistando successivamente spirito vitale. Purtroppo, però, il nostro non è un film. Piuttosto auguriamoci di svegliarci, per davvero, un giorno e riuscire a vedere, finalmente, il contagio dei morti dementi.

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